Esattamente settantuno anni fa in Italia le donne avevano il primo libero accesso alle urne.

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Con decreto legislativo luogotenenziale n. 23, del primo febbraio 1945, il Principe di Piemonte Umberto di Savoia ammetteva infatti al voto le donne del Regno, ordinando pertanto ad ogni Comune di compilare distinte liste elettorali femminili.

L’elettrice, almeno ventunenne, doveva (al pari degli uomini) godere, per nascita o per origine, dei diritti civili e politici del Regno, o risultare naturalizzata per decreto Reale seguito da giuramento di fedeltà al Re.

Rimanevano comunque escluse dal voto le prostitute esercenti la professione al di fuori fuori dei locali autorizzati, anche se in possesso del libretto sanitario previsto dall’art. 20 del R.D. 25 marzo 1923, n. 846.

Forti del decreto n. 23, e del successivo che ne ammetteva l’elezione, le donne si presentarono dunque alle urne tra il 10 marzo ed il 7 aprile per eleggere i primi sindaci dopo la caduta del regime fascista.

L’affluenza fu elevata (oltre l’89%), come lo fu anche il successivo 2 giugno quando anche le donne poterono manifestare la propria opinione al referendum per il passaggio da monarchia a Repubblica, e poterono votare per la formazione dell’assemblea incaricata di promulgare la Costituzione.

A seguito delle amministrative del 1946 entrarono a far parte dei Consigli Comunali circa 2000 donne. Alcune, in piccoli centri, riuscirono addirittura a rivestire la carica di Sindaco.

Ventuno furono invece, accanto ai “Padri Costituenti”, le “Madri Costituenti”.

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