I crostacei, fino all’immersione in acqua bollente, non devono soffrire.

granchio - maltrattamento - abbandono

La vicenda giunta all’attenzione della Corte di Cassazione vede come protagonisti alcuni sfortunati animaletti ed il direttore di un ristorante toscano.

Ritrovati un astice ed un granchio adagiati vivi nel ghiaccio di una cella frigorifera, scattavano per il proprietario (già preavvertito dell’illiceità della condotta) un’ammenda di 5.000,00 Euro e, successivamente, la condanna al risarcimento del danno riconosciuto in via equitativa alla LAV (Lega AntiVivisezione), costituitasi parte civile.

Secondo la pronuncia confermata dalla Corte, la detenzione a zero gradi di esseri viventi abituati a temperature ben più miti rappresenta una condizione incompatibile con la natura dell’animale ed una fonte di gravi sofferenze, con conseguente punibilità della condotta ai sensi dell’art. 727, co. 2, c.p.

Ma davvero soffre un’astice così costretto? Davvero ha senso interrogarsi sul benessere di un animale già condannato a morte certa?

Sono questi alcuni degli interrogativi sollevati dalla difesa del ristoratore fiorentino che, a suo dire, si era limitato a mantenere i crostacei nella stessa condizione in cui, senza alcuna violazione della normativa in materia, avevano percorso il viaggio che li aveva portati dall’America in Italia.

Chiamata ad esaminare la questione, la Cassazione decide con la pronuncia n. 30177/17 di seguire l’orientamento per il quale, nel valutare l’effettiva commissione del reato, bisogna avere riguardo ai dati di comune esperienza e conoscenza per quanto riguarda le specie più note, ed a quelli acquisiti mediante le scienze naturali per le altre, tra le quali i crostacei.

La Corte osserva sia che le più recenti ricerche scientifiche evidenziano che granchi, aragoste ed affini possono soffrire, sia che nei ristoranti e nei supermercati di grande distribuzione è ormai di prassi la loro detenzione in adeguati acquari riscaldati ed ossigenati.

Nemmeno la già scritta condanna a morte dell’animale esime il detentore da un adeguato trattamento: solo la particolare modalità di cottura (che prevede l’immersione in acqua bollente del crostaceo ancora vivo) può infatti considerarsi lecita, dati il suo “uso comune” e la finalità di soddisfare un interesse umano prevalente su quello alla non-sofferenza della bestiola, non potendo invece considerarsi una “consuetudine socialmente apprezzata” quella di farla soffrire un essere vivente per cattiva detenzione per sole ragioni economiche di risparmio.

Possiamo dunque dire che questa si rivela una mezza vittoria per gli animalisti, costretti a leggere fra le righe il controsenso di vietare la cattiva detenzione di animali che, in ogni caso, rimangono condannati ad una fine atroce.

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